Quando si parla di investimenti, a tutti viene in mente l’associazione con un’altra parola, assai meno gradita, ma indissolubilmente legata alla prima: il rischio.
In termini generali, secondo la definizione del vocabolario Devoto-Oli - ebbene sì, sono un inguaribile tradizionalista ;) - il rischio è “l’eventualità di subire un danno o una perdita, più incerta rispetto a pericolo”.
Non solo. Nell’accezione generale, la quantità del rischio non cambia con il passare del tempo, ovviamente a parità di altre condizioni al contorno. Ad esempio, se oggi riteniamo che praticare l’alpinismo comporti un rischio (nel caso specifico di subire un danno fisico), tale valutazione rimane la stessa anche tra un anno, o tra dieci anni.
Ma in ambito finanziario, quali sono le caratteristiche del rischio connesso all’investimento? Esso risponde alla definizione generale, oppure c’è qualcosa di diverso, peculiare?
La risposta è… dipende dalle competenze finanziarie di chi fa l’investimento.
Se chi investe ha scarse competenze finanziarie, sono elevate le probabilità che commetta errori (anche nella valutazione del rischio) nel comporre il proprio portafoglio, e prima o poi potrebbero esserci conseguenze impattanti ed inaspettate.
I portafogli di chi non ha elevate competenze infatti sono spesso inconsapevolmente infarciti di rischi “specifici”, quelli più imprevedibili e potenzialmente impattanti. Anche il mio era così… un tempo.
In questi casi, il rischio di subire perdite connesso con l’investimento riflette pienamente la definizione generale, anche nel lungo periodo.
Ma se invece chi investe invece ha elevate competenze in materia, allora il discorso cambia, e non poco.
Con opportune scelte infatti si possono “sterilizzare” i rischi specifici, minimizzandone l’eventuale impatto negativo sul portafoglio.
Dopodiché, ciò che rimane è il cosiddetto rischio “sistematico” o “di mercato”, che è ineliminabile.
Tale rischio viene identificato dal grado di “volatilità” complessiva del portafoglio, cioè dalla frequenza ed ampiezza delle fluttuazioni che esso subisce, sia positive che negative al variare delle condizioni di mercato (per quelle negative, evidentemente le più “indigeste”, vi sono poi ulteriori indicatori specifici).
Da ciò consegue la prima buona notizia: la volatilità del portafoglio può essere ragionevolmente valutata a priori, scegliendo con cognizione di causa gli strumenti finanziari ed i relativi pesi percentuali.
Cosa significa “ragionevolmente”? Significa con elevato grado di confidenza. E mi auguro che ciò NON vi sembri poca cosa, perché non lo è affatto!
Preferivate certezza assoluta? Eh anch’io. Ma su cosa, nella vita, abbiamo certezza assoluta? Ecco, appunto.
La seconda buona notizia è che da un portafoglio ben costruito, è ragionevole aspettarsi una progressiva riduzione di volatilità (cioè di rischio) nel lungo periodo. In altri termini, il TEMPO che passa migliora le prospettive di rendimento positivo, ed al contempo rende via via meno probabile ed impattante l’eventuale perdita.
L’unica notizia non proprio-buona è che “settando” un portafoglio alla minima volatilità, cioè al minimo rischio, lo stesso aggettivo toccherà poi verosimilmente utilizzare per i rendimenti… Attenzione però: sul rendimento del portafoglio nel lungo periodo incidono – e parecchio – anche i costi di gestione! Su questo faremo in futuro uno specifico approfondimento.
Quindi, per investire efficacemente, è raccomandato anzitutto conoscere la materia. Come dice Warren Buffett:
“Wall Street è un luogo molto costoso dove fare esperienza!”